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Immagine del redattoreDaniele Pezzali

"L'appuntamento" Autore Daniele Pezzali, racconto tratto da "Storia di un buyer"



Piove, novembre è arrivato improvvisamente e fa già freddo, quel freddo umido che ti fa sentire i vestiti bagnati, che ti entra nelle ossa. Il cielo è cupo, sono le 17.00, le giornate si sono accorciate ed è come se fosse già notte fonda.

Sono appena uscito dall’officina elettromeccanica vicino a Città Studi, nella quale lavoro da quasi tre mesi, quando ho preso di corsa il filobus che percorre la circonvallazione di Milano.

Il mezzo, come al solito, è affollato e procede a rilento; il traffico con la pioggia diventa caotico e questo enorme bus a fatica avanza tra le auto che si infilano in ogni dove ostacolando la sua strada. Per fortuna alcuni tratti della circonvallazione sono riservati solo ai mezzi pubblici e allora si recuperano parte dei minuti persi.

Mi ci vorrà almeno un’ora per fare il tragitto ed arrivare davanti alla scuola.

Fortunatamente, dopo qualche minuto, ho trovato il posto per sedermi ed ho con me sia il mio fidato Corriere della Sera, che da anni compro ogni mattina, sia il libro di elettronica, quindi ho modo di sfruttare al meglio tutto il tempo del viaggio.

Sono stanco, la giornata in laboratorio con il titolare è stata pesante, ma non posso saltare la lezione di elettronica digitale di stasera; probabilmente, a causa di questa pioggia, arriverò in classe giusto in tempo e, come di sovente, la mia cena sarà composta da un litro di latte e un chilo di frutta, sempre che riesca a passare dal negozietto di alimentari prima di entrare in classe.


Mi ero diplomato in elettronica due anni prima e fu uno sforzo immenso frequentare l’ultimo biennio di sera lavorando di giorno, ma il risultato ci fu, la votazione di 56/60 mi riempì di soddisfazione alimentando la mia autostima, anche perché nella sessione dell’esame di maturità gli studenti della scuola serale si presentarono assieme a quelli della scuola diurna ed ai fini della valutazione finale non fu fatta nessuna distinzione!

L’università fu soltanto un lontano miraggio, il mio stipendio di magazziniere era troppo importante per la mia famiglia ed il problema di continuare gli studi non fu quello di dovermeli pagare; il vero dilemma consistette nel fatto che i miei genitori, per sopravvivere, avevano assolutamente bisogno di buona parte del mio stipendio.

Dopo qualche mese dall’esame di maturità, mi arrivò la cartolina di chiamata al Servizio di Leva ed in famiglia piombammo nel panico!

Mesi prima avevo inoltrato al Distretto Militare la domanda di esonero dal Servizio di Leva, le motivazioni che avevo riportato riguardavano l’invalidità di mio padre ed il reddito familiare, ma la richiesta fu respinta: mio padre non era invalido abbastanza (solo all’80%) ed il reddito superava di poche migliaia di Lire la soglia di povertà, quindi, nonostante un tentativo di ricorso, dovetti partire per la Leva e la prima destinazione fu Chieti!

La mia famiglia fece tesoro di quei pochi soldi di liquidazione che presi e trovò il modo di sopravvivere quell’anno senza il contributo del mio salario.

Fortunatamente, dopo tre mesi, fui trasferito alla caserma di Milano e mi fu consentito di prestare servizio solo di giorno, in quanto il ricorso che inoltrai fu parzialmente riconosciuto ai fini di assistere mio padre alla sera, così potei prestare anche un aiuto ai miei genitori per la conduzione della portineria.


La data del congedo si avvicinava e non volevo assolutamente tornare a fare il magazziniere per quell’azienda di articoli per ufficio anche se mi avevano sempre trattato bene. Volevo perseguire il mio obiettivo di trovare un lavoro attinente al mondo dell’elettronica!


Guidato da quel pensiero, un pomeriggio, alla fine di luglio del 1986, uscii di corsa dalla caserma per andare a fare un colloquio di lavoro a Città Studi presso un’azienda che produceva macchinari per l’automazione.

Il titolare mi propose il contratto di assunzione solo a patto che accettassi, a spese loro, di frequentare un corso parauniversitario di Elettronica Digitale della durata di un anno, che mi avrebbe colmato le lacune lasciate dai programmi ministeriali della scuola superiore, non sufficientemente aggiornati sulla materia.

Accettai di buon grado di frequentare quel corso, quattro sere alla settimana, con la consapevolezza di andare incontro ad un altro duro anno di studio/lavoro che mi avrebbe privato di una buona fetta del mio tempo libero.


A dire il vero il lavoro in laboratorio in questi tre mesi non mi ha proprio soddisfatto, l’azienda è ancora di proprietà dell’anziana signora, vedova del fondatore, la quale è sempre presente in ditta con il suo sguardo severo per fare rispettare gli orari e la disciplina.

I due figli, che prima o poi prenderanno in mano le redini della società, si sono divisi i compiti operativi: il più giovane e brillante, una persona sempre di buon umore e aperta, dirige la parte commerciale ed amministrativa, mentre il settore tecnico e produttivo è diretto dal fratello maggiore che ha un carattere introverso e lunatico ed è con lui che, mio malgrado, lavoro buona parte della giornata.

Gli studi del corso di Elettronica Digitale sono molto interessanti e le tre ore di lezione alla sera non mi pesano più di tanto, ma in questi ultimi giorni sono sopraffatto dall’idea di trovare un lavoro più dinamico.

La mia giornata è incentrata a ricercare i guasti delle schede elettroniche che utilizziamo in produzione; lavoro quasi sempre da solo chiuso nel laboratorio, non ho contatti con i colleghi e quella stanza mi pare sempre di più un luogo di detenzione.

Il venerdì sera non ho lezione, ma ora ho un argomento ben più importante da studiare: le inserzioni di lavoro che vengono pubblicate sul Corriere della Sera!


Infatti nel 1986, molto prima della diffusione di massa di internet, il mezzo più sicuro ed immediato per trovare lavoro a Milano erano proprio i quotidiani e tutti i venerdì l’edizione del Corriere usciva in edicola con più di 10 pagine colme di annunci di offerte di lavoro.


“Importante Azienda del Settore Ferroviario cerca Tecnici Specializzati in Elettronica – Sede di lavoro: Milano Nord”

Perfetto, questo annuncio calza a pennello!

Di scatto apro il coperchio della mia macchina da scrivere (una portatile Olivetti, rigorosamente manuale, un po’ sgangherata che mi era stata regalata da un inquilino del condominio dove mia madre lavorava), scrivo la lettera di presentazione, allego la fotocopia con il mio CV, metto i fogli nella busta e scrivo a mano l’indirizzo.

Domattina andrò all’ufficio postale a spedire la lettera con l’affrancatura “Espresso”, come richiede l’annuncio.


Qualche giorno dopo, al ritorno dal lavoro, vedo un appunto sul tavolo preso da mia mamma: “Daniele chiama Maria a questo numero, si tratta di un’azienda che lavora per le ferrovie ed hanno ricevuto la tua lettera in risposta al loro annuncio”.

Gli occhi mi si illuminano, sono felicissimo, penso subito che domani dovrò trovare il modo di uscire dal laboratorio in pausa pranzo per chiamare quel contatto!


Le ore passano lente, queste maledette schede non funzionano ed ogni volta hanno un difetto diverso, perdo ore con la lente di ingrandimento a guardare tutte le piste del circuito stampato, qualche volta trovo una saldatura sporca che non fa contatto, altre volte trovo una pista interrotta, ma in molti casi visivamente non c’è nulla di anomalo e la ricerca del guasto con il tester e con l’oscilloscopio mi fa dannare.

Ho in tasca il biglietto col numero di Maria, mi sento impaziente e ansioso nello stesso tempo, non vedo l’ora che arrivino le 12.30 per raggiungere la cabina telefonica all’angolo della via, ma ho il timore di non trovare Maria in ufficio perché magari a quell’ora sarà già uscita da pochi minuti per il pranzo…

Ore 12.30 corro fuori, in tre minuti sono nella cabina e compongo il numero, mi risponde una voce maschile dicendomi che Maria è in pausa fino alle 14.00 e che poi finisce la giornata in ditta alle 16.00 perché lavora part-time.

Mi cadono le braccia, durante l’orario di lavoro per me è impossibile fare una telefonata, l’anziana titolare mi controlla di continuo.

Il centralinista non mi riferisce altri nominativi con i quali possa parlare e capisco che devo trovare un’altra via per fissare l’appuntamento.


Alla sera accenno l’argomento a mia mamma, le chiedo di chiamare Maria per l’appuntamento e di spiegarle che posso presentarmi al colloquio solo di venerdì sera o di sabato perché gli altri giorni sono impegnato con le lezioni a scuola.


Per molti che stanno leggendo queste righe, specie per i più giovani, sarà quasi impossibile comprendere il mio stato d’animo di allora e la frustrazione generata solo per la difficoltà di fare una telefonata per fissare un banale appuntamento.

Purtroppo, nel 1986 non esistevano cellulari, e-mail, chat… e per un ragazzo di vent’anni, appena assunto che lavorava in officina, era difficilissimo fare una telefonata privata durante la giornata lavorativa, senza un giustificato motivo di provata urgenza.

Ovviamente per un’impellenza si poteva chiedere e si otteneva l’autorizzazione di telefonare, ma non c’erano i telefoni cordless ed era impossibile parlare senza essere ascoltati…

A quei tempi, specie per un giovane operaio, il concetto di “privacy” non esisteva ancora, quindi le telefonate venivano tranquillamente ascoltate dagli impiegati presenti in ufficio e non c’era la possibilità di uscire dalla fabbrica durante l’orario di lavoro per raggiungere una cabina telefonica.


Mia mamma per me era “la segretaria perfetta”, aveva una dialettica semplice e allo stesso tempo meravigliosa, anche al telefono aveva la capacità di comunicare con empatia e riusciva a mettere a proprio agio la persona che si trovava dall’altra parte del filo.

Io non ero mai a casa e lei al telefono sapeva gestire con tatto le chiamate che arrivavano dai miei amici, dalle mie amiche (quelle che già conosceva e quelle nuove…) e dalle aziende che contattavo per i colloqui di assunzione.


- “Daniele, oggi ho parlato con Maria, mi è sembrata una donna determinata e non tanto facile da convincere, le ho spiegato le tue difficoltà ad accettare l’incontro durante gli orari di lavoro perché sei stato assunto da poco, che sei disponibile al colloquio solo al venerdì perché gli altri giorni vai a scuola alla sera, inoltre le ho detto che devi fare tanta strada per arrivare fino alla Bicocca… Ma lei mi ha risposto che il colloquio lo devi tenere con il direttore dello stabilimento e che lui non è sempre disponibile!

Insomma, mi ha fissato un appuntamento per dopodomani, che è giovedì, alle 16.30 e mi ha chiesto di darle conferma domattina. Cosa vuoi fare? Io ti consiglio di prendere mezza giornata di ferie e di andare.”

- “No mamma, non posso prendere permessi in ditta e poi giovedì prossimo ho una lezione importante di Elettronica, se andassi al colloquio sarebbe poi per me impossibile raggiungere la scuola in tempo, domani richiamala e dille che rinuncio alla candidatura.”

Mia mamma legge nei miei occhi la frustrazione ed il mio dispiacere, mi conosce troppo bene e sa quanto sia penoso il mio rammarico per aver perso un’occasione.


Il giorno seguente mia mamma chiamò Maria, non le chiesi mai cosa si dissero al telefono ma, a distanza di tanti anni, oggi mi interrogo ancora su quello che le due donne si scambiarono in quella precisa circostanza. Perché sono sicuro che mia mamma fece quella telefonata con grande tatto e che fu molto coinvolgente nell’esprimere i motivi ed il dispiacere della mia rinuncia; lei sapeva quali corde toccare in una persona e senza dubbio fece in maniera tale che Maria ricordasse il nostro numero di telefono.


Trascorse una settimana dalla disdetta di quell’appuntamento e ripiombai, come ogni venerdì, a consultare sul giornale le offerte di lavoro. Ogni giorno che passava capivo sempre di più che non avevo l’indole per stare rinchiuso in un laboratorio tutta la vita, avevo bisogno di ossigeno, di comunicare con la gente e di ricevere nuovi stimoli.


È martedì sera, torno a casa che è mezzanotte, dopo la scuola ho incrociato gli amici ed ho fatto tardi. Apro dolcemente la porta di casa, i miei genitori dormono, quando mi avvicino al letto, accendo la luce e vedo sul cuscino un messaggio scritto da mia mamma: “Daniele, ha chiamato Maria dell’Azienda Ferroviaria, mi ha riferito che vuole trovare il modo di fissare l’appuntamento di venerdì, perché si tratta di una buona opportunità”

Rimango incredulo, mi corico e mi addormento con una nuova speranza nel cuore.


Il mattino seguente chiesi a mia mamma di richiamare Maria e di tentare di fissare l’appuntamento per il venerdì successivo, di pomeriggio al più tardi possibile.

Infatti io lavoravo nella parte est di Milano, mentre l’azienda ferroviaria era situata a nord, al confine con Sesto San Giovanni e questo significava trascorrere almeno un’ora di viaggio, anche utilizzando l’auto.


Ieri ho chiesto all’anziana titolare un’ora di permesso, è il primo permesso che le chiedo da quando sono stato assunto e non mi aspettavo di essere sottoposto ad un interrogatorio. Ho cercato di sviare le domande facendole capire che è una questione personale; mi ha esternato il suo disappunto dicendomi che per chiedere un permesso di qualche ora bisogna avere dei motivi validi come: una visita medica, un esame clinico, oppure presenziare ad un funerale, altrimenti per un ventenne non esistono altre ragioni per uscire prima, comunque dopo la ramanzina mi ha concesso il permesso.

Meno male, alle 16.00 uscirò da questo laboratorio, ho appena il tempo per raggiungere l’azienda a nord di Milano, per essere là alle 17.00 dovrò correre in macchina cercando di evitare il traffico dell’ora di punta.

Vista la mentalità che c’è in questa ditta, sarò più che motivato a fare un bel colloquio di lavoro!


Alle 17.00 in punto sono davanti alla portineria dell’azienda ferroviaria, mi faccio annunciare dal custode, Maria è già uscita ed aveva comunicato a mia mamma di chiedere direttamente dell’ing. Bruno, che è il direttore dello stabilimento.

La sala riunioni, pur essendo piccola, è occupata da un grande tavolo ovale, oltremodo sproporzionato e lo spazio dalle sedie alle pareti è proprio limitato al passaggio di una persona, gli uffici sono puliti ed in ordine, ma sono arredati con mobili vecchi e percepisco un odore stantio.

Non so se è solo una mia impressione perché sono condizionato dall’attività svolta da questa azienda che ripara carrozze ferroviarie, ma stare in questa stanza mi fa percepire l’odore che si sente entrando in una sala d’aspetto di una vecchia stazione delle ferrovie.

Alle pareti ci sono disegni e fotografie di carrozze ferroviarie storiche e tutto ha un gusto retrò.

Dopo un quarto d’ora d’attesa mi appare davanti l’ing. Bruno e mi fa strada verso il suo ufficio che si trova proprio vicino all’ingresso principale.

Entro, mi siedo e tutto mi appare diverso, l’odore non è più sgradevole come nell’altra sala, i mobili sono antichi scuri, mi sembrano pregiati, appoggiata alla parete c’è una vetrina d’epoca ed al suo interno sono accatastati decine di libri: alcuni tecnici, altri rilegati in pelle che sembrano antichi.

Le poltroncine poste davanti alla sua scrivania sono in legno e la seduta è di pelle. Mi siedo e sono confortevoli, la scrivania è grande, imponente. L’ing. Bruno si siede sulla sua poltrona che sembra un trono, davanti a sé ha tre telefoni, sul piano della scrivania ci sono diversi documenti ed alla sua destra c’è una pila di cartellette alta una spanna.

L’ing. Bruno ha circa quarant’anni, capelli ondulati con qualche filo grigio, viso scavato e occhi scuri, uno sguardo penetrante quasi magnetico. Mi accoglie con un sorriso e mi dice: “Allora sei tu Daniele! Ero proprio curioso di conoscerti, Maria mi ha detto che l’hai fatta dannare per fissare questo appuntamento e questo mi ha incuriosito. Parlami di te!”

Mi sento impietrito, quegli occhi sono duri ma allo stesso tempo vedo che sono pronti ad ascoltarmi, faccio un grande respiro, sono consapevole di avere imparato tanto dai comportamenti di mia mamma, per lei comunicare con la gente è un vero e proprio mestiere, sono sicuro di rompere il ghiaccio e di sapermi esprimere con sicurezza.

Senza esitazione, come un torrente in piena, raccontai all’ing. Bruno prima l’esperienza di lavoro insoddisfacente che stavo facendo poi descrissi i lavori che, nonostante la mia giovane età, avevo svolto in precedenza: magazziniere, rappresentate di articoli per ufficio e operaio presso un’impresa di pulizie nella quale fui assunto a 17 anni appena compiuti, dopo essermi iscritto alla scuola serale.


L’ing. Bruno mi ascolta con attenzione, lo sento partecipe ed io quasi inconsapevolmente accenno anche alla situazione economica disastrata della mia famiglia, dell’invalidità di mio padre e della mia infanzia vissuta di stenti nelle case di ringhiera di Via Paolo Sarpi dove, sin da bambino, per racimolare qualche soldo per la famiglia, mi ero inventato di vendere fumetti e spillette sul marciapiede della via.

L’ing. Bruno mi rivolge anche diverse domande tecniche di elettronica e di matematica, io rispondo prontamente senza esitare, dimostrando la mia preparazione.

Vedo nello sguardo dell’ing. Bruno una certa soddisfazione, noto che si rilassa sulla sua grande poltrona allungando le gambe e comincia a raccontarmi con enfasi e dettaglio della storia dell’azienda e delle figure tecniche che stanno cercando.

Conversiamo per più di un’ora poi quando pare avere esaurito tutti gli argomenti del colloquio, l’ing. Bruno mi guarda intensamente, il silenzio si protrae per molti secondi… Sento pervadermi un alito di imbarazzo, mi domando se forse ho detto qualcosa di sbagliato, poi all’improvviso fissandomi con quegli occhi profondi mi chiede senza preamboli: “Mi hai detto che stai frequentando un corso serale di elettronica in un istituto vicino a Porta Genova, ci vuole più di un’ora di strada da qui, cosa farai riguardo quell’impegno se verrai a lavorare in questa azienda?”

Non ci penso su un secondo, la mia risposta esce spontanea ed immediata dalle mie labbra:

“Ing. Bruno, il corso mi interessa, è stato pagato fior di quattrini dalla titolare della ditta per la quale sto lavorando, ho già verificato che da qua fino alla scuola ho giusto il tempo di arrivare senza sacrificare la prima ora di lezione, il corso finirà a giugno; quindi ho intenzione di portarlo a termine!”

L’ing. Bruno continua a guardarmi intensamente, il mio sguardo è incollato alle sue pupille. Senza distogliere gli occhi da me, si china quasi a finire sotto la scrivania e con la mano va a pescare il cestino, porta il contenitore al suo fianco e lentamente afferra quel fascicolo di carte posto alla sua destra.

Sembra che tutto si svolga alla moviola, con gli occhi pungenti ancorati ai miei, quasi a volere entrare nella mia mente, ruota le braccia ponendo la risma di carte perpendicolare al secchio, alza il plico quasi sopra alla sua testa e con quel gesto plateale lo lascia cadere dentro.

Il rumore mi fa sobbalzare, all’improvviso si interrompe quello stato ipnotico e davanti al mio sguardo sbigottito, per non dire spaventato, vedo spalancarsi il sorriso dell’ing. Bruno che mi dice: “Daniele sei assunto! Sono due settimane che incontro candidati e quelli che ho visto finora si sono meritati solo il cestino, Maria aveva ragione ad insistere per fissare un appuntamento con te, lunedì chiamala perché devi sottoporti alla visita medica presso le Ferrovie dello Stato!”

Esco da quell’ufficio che è già buio pesto e, camminando verso la mia macchina, mi sembra di volare.


Penso che l’ing. Bruno non sapesse che io prima di allora non avevo avuto l’occasione di parlare direttamente al telefono con la sua segretaria Maria e ancora oggi mi rammarico di non averle mai chiesto che cosa le raccontò mia mamma e come fece a convincerla per fissare quell’appuntamento, nonostante la mia prima rinuncia.


Come accennavo nell’introduzione, la vita è fatta di coincidenze, alcune delle quali sono felici, altre sono drammatiche, ma alcune sono addirittura rocambolesche e paradossali!

La visita medica venne fissata pochi giorni dopo, ai primi di dicembre presso il Distretto Sanitario delle Ferrovie dello Stato sito a Milano Porta Garibaldi, non tanto distante da casa mia.

Presi un giorno intero di ferie in quanto mi fu comunicato che avrei dovuto sottopormi a diversi esami e che ci sarebbe voluta l’intera giornata.

Fu assurdo che la titolare dell’azienda per la quale lavoravo, davanti alla richiesta di un giorno di ferie, non batté ciglio. Infatti, nella sua logica, una giornata intera di congedo poteva essere motivata da molte plausibili ragioni, a differenza delle ore di permesso.

Fu la prima volta in vita mia che feci un vero e proprio check up: visita medica, esami del sangue, schermografia, spirometria, elettrocardiogramma ed in ultimo la visita oculistica.

Avevo 21 anni, ero nel pieno della salute con un fisico atletico, nulla di più facile, ma quel giorno non notai lo stupore ed il ghigno sornione dell’oculista quando mi chiese di leggere il tabellone e vide che tirai fuori dalla tasca i miei occhiali.


Sono nel laboratorio, la ricerca dei guasti sulle schede elettroniche non mi mette più ansia, so che a breve avrò la conferma del nuovo lavoro nel mondo ferroviario e conto i giorni per cambiare vita.

Alla mattina di quel venerdì mi chiamano nell’ufficio perché c’è una telefonata urgente da parte di mia mamma. Mi allarmo subito, penso a mio papà e a qualcosa che potrebbe essergli accaduto, mia mamma al telefono mi dice sottovoce che l’ha appena chiamata Maria dell’azienda ferroviaria e che era allarmata, non ha specificato il motivo, ma era qualcosa che riguardava la mia assunzione e che quella sera stessa avrei dovuto recarmi dall’ing Bruno.

Mi aggredisce l’ansia, ma stavolta il problema non è quello di dover chiedere ancora un’ora di permesso bensì quello di percepire che ci siano problemi riguardo la mia imminente assunzione!


Arrivo all’Azienda ferroviaria alle 17.30, prima di Natale tutti sembrano impazziti per strada ed in macchina ho impiegato molto più tempo della volta precedente, constatando il probabile ritardo, per strada mi sono fermato ad una cabina telefonica per annunciare che sarei arrivato mezz’ora dopo.

L’ing. Bruno mi riceve subito, è scuro in volto, non vedo rabbia nei suoi occhi e non capisco il suo umore.

Mi fissa con il suo sguardo penetrante, è la seconda volta che lo incontro, ma è come se lo conoscessi da più tempo, all’improvviso mi chiede: “Daniele perché mi hai mentito?”

Sono gelato, non capisco, lo fisso sbigottito e sussurro: “Io non le ho detto nessuna bugia, cosa succede?”

Estrae da una busta la cartella con i miei esami clinici e mi porge il foglio dell’esame della vista e mi dice di leggere.

Prendo in mano il certificato, la mia attenzione corre subito su quel timbro rosso in fondo alla pagina che con caratteri maiuscoli esprime l’esito finale “NON IDONEO”, poi leggo il referto della visita: soggetto miope, occhio sx -0,75 occhio dx -0,50

Il silenzio avvolge la stanza, l’aria diventa pesante, lo sguardo dell’ing. Bruno è fisso puntato su ogni muscolo del mio volto.

Alzo i miei occhi, lo guardo intensamente, stringo i denti.

Il mio stomaco si contrae e non riesco a trattenere due grosse lacrime che mi rigano il volto, respiro profondamente e rispondo con un filo di voce: “Io non le ho mentito, lei non mi ha detto che per essere assunto il requisito fosse quello di avere un visus di 10/10, io gli occhiali li uso solo per guidare e solitamente li lascio in macchina, la mia miopia è leggerissima e non ho motivo di indossarli sempre”.

L’ing, Bruno capisce che non gli sto mentendo e mi conferma che durante il nostro incontro non abbiamo parlato dell’esame della vista però mi dice che non può più formalizzare la lettera di assunzione per quella posizione di tecnico specializzato in elettronica.

Sono affranto, penso di alzarmi, ringraziare ed uscire da quell’ufficio, un nodo mi stringe la gola, mi manca l’aria, ma l’ing Bruno mi chiede altre cose su di me, vuole sapere come mi sono organizzato per frequentare gli studi di sera lavorando di giorno.

Mi chiede ancora dettagli riguardo la mia passata esperienza di rappresentante di articoli per ufficio durata circa un anno e mi invita a parlare della mia adolescenza…

Ingoio il rospo e, piano piano, con qualche sussulto nella voce, descrivo i dettagli che mi sono richiesti, parlo forse per dieci minuti, forse per mezz’ora, perdo la cognizione del tempo, rimaniamo in silenzio e ci alziamo quasi contemporaneamente; l’ing. Bruno mi accompagna alla porta, mi stringe forte la mano, è una stretta interminabile per dare il tempo all’altra mano di porsi sulla mia spalla, quasi per volermi consolare o abbracciare e mi dice: “Daniele, trascorri un buon Natale, non posso farti promesse, ma non voglio perderti.


È già buio pesto e questa volta raggiungo la mia auto quasi strisciando, appena entrato in macchina appoggio le braccia sul volante, chino la testa e scoppio in un pianto disperato e liberatorio.


Quel venerdì, a pochi giorni dal Natale, fu il venerdì più nero della mia vita, per la prima volta capii sulla mia pelle il significato di “handicap” e, pensando alla mia stupida miopia, ringraziai Dio per non avere qualche disabilità ben più seria!


Trascorsi un Natale sottotono. In quelle due settimane di festività nemmeno il Corriere pubblicò le offerte di lavoro e la mia consapevolezza fu quella di tornare in quel laboratorio, soffocato, in clausura, chissà ancora per quanto tempo.

Racconto tratto dal libro "Storia di un buyer" di Daniele Pezzali edito da KDP-Amazon 2019 - (https://www.danielepezzali.com/libri).

29 dicembre 2020

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