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Immagine del redattoreDaniele Pezzali

"La Scuola" Autore Daniele Pezzali, racconto tratto da "Lettere di gioventù"



Mi piaceva studiare, avevo scelto l’indirizzo tecnico di elettronica perché sin da bambino ero affascinato dai dispositivi elettrici ed il mio sogno era quello di “andare per le case della gente a riparare i televisori”.


Alla scuola superiore finivo le lezioni alle 13 e impiegavo circa quarantacinque minuti per tornare a casa. Nel pomeriggio dovevo rimanere qualche ora in portineria per sostituire mia mamma ed era solo quello il tempo che avevo a disposizione per eseguire i compiti, perché poi avevo sempre qualche lavoretto da svolgere: le pulizie nello stabile dove mia mamma lavorava come portinaia, quelle di qualche appartamento, qualche ora impiegata nel laboratorio di riparazioni di apparecchi radio-televisivi vicino a casa mia, la distribuzione di volantini e tante altre piccole occupazioni che trovavo attraverso mia madre che veniva spesso interpellata dagli inquilini per le più disparate esigenze. Infatti mio fratello ed io ci prestavamo sempre volentieri a vari servizi pur di racimolare qualche soldo.

Affrontai le scuole superiori con molta responsabilità e seguii i consigli dei miei familiari che erano quelli di stare attento alle lezioni e prendere appunti in maniera costante, ordinata e organizzata, anche perché non avendo i soldi per acquistare tutti i libri di testo, gli appunti diventavano preziosi per studiare!

Quindi decisi, sin dal primo giorno di scuola, di sedermi al primo banco, proprio davanti alla cattedra e la mia attenzione alle lezioni era contraddistinta da un continuo dialogo empatico con il professore che avevo di fronte e dalla foga di prendere appunti.

Di fatto tanta volontà non era dovuta alla mia solerzia, ma alla necessità di ridurre al minimo il tempo da dedicare ai compiti pomeridiani, per poter accettare quei lavori saltuari.


Pur vivendo in una famiglia che riversava costantemente in una situazione economica precaria, c’erano cose che per mio padre erano irrinunciabili, una di queste era la lettura quotidiana e scrupolosa del Corriere della Sera. Sin da piccolo ho sempre visto in casa quel giornale e guai a rovinarlo prima che fosse stato letto da mio papà!

A me, all’età di quattordici anni, quell’insieme di grandi pagine scritte fitte fitte non interessava, i fumetti erano la mia passione e solo a quelli dedicavo la mia attenzione per svagarmi.


La lungimiranza di mio padre quel giorno fu grande!

Era una mattina del settembre 1979, il mio primo giorno di scuola alle superiori.

Attesi quel giorno con trepidazione, quella data segnava per me “la maturità”, avevo fatto per la prima volta in vita mia l’abbonamento mensile ai mezzi pubblici e, per recarmi a scuola, dovevo districarmi in maniera autonoma con le numerose linee di trasporto milanesi.

La fermata del filobus della circonvallazione era poco distante da casa mia ed in circa mezz’ora riuscivo ad arrivare in piazzale Loreto poi in dieci minuti a piedi raggiungevo la scuola.

Quella mattina scesi in portineria, dalla mia camera al di là del cortile, trovai la colazione pronta e vicino alla tazzina del caffè c’erano 300 lire.


“Buongiorno Daniele! Sei pronto per il tuo primo giorno di scuola alle superiori?

Come vedi ti ho messo sul tavolo 300 lire, con quei soldi per cortesia comprami il giornale all’edicola che c’è proprio davanti alla fermata del filobus.”

“Sì, papà, sono pronto, stamattina devo sperimentare anche i tempi di percorrenza con il traffico e spero di non dovere fare di corsa il tratto pedonale, dalla fermata del bus fino all’Istituto, per arrivare in classe in orario.

Perché devo comprarti il Corriere della Sera?

So che di solito tu leggi il giornale al mattino, ma io vado a scuola e prima delle 14 non sarò di ritorno.”

“Non preoccuparti, ho deciso che da stamattina sarai tu a comprarmi il giornale tutti i giorni ed io lo leggerò nel pomeriggio!”


Io, all’epoca, non capii quel gesto, anzi mi stupii perché sapevo che mio padre amava leggere le notizie fresche di giornata.

Ma quel rituale durò per cinque anni, ogni mattina trovai vicino alla tazza del caffè i soldi per il giornale, ricordo che le prime settimane comprai il Corriere della Sera giusto per infilarlo in cartella e per consegnarlo a mio papà alle due del pomeriggio.

Fino a che una mattina, sul filobus, cominciai ad incuriosirmi a quel fascicolo di carta ingombrante… E a pochi mesi di distanza da quel primo giorno di scuola, dimenticai quasi del tutto i fumetti ed il Corriere della Sera per me divenne la lettura più interessante del mondo!

Quel quotidiano mi rapì e presto diventò una lettura indispensabile già dalla prima superiore. Mi ricordo la frenesia di acquistarlo in edicola alla mattina e di sfogliarlo per vedere gli epiloghi dei fatti che i giorni precedenti avevano attirato la mia attenzione.

La politica estera fu l’argomento che mi affascinò di più sin dall’inizio (la guerra fredda, le proteste del popolo in Polonia, la posizione della Chiesa con l’elezione di Papa Wojtyla, la rivoluzione in Romania, il crollo del muro di Berlino…), poi la politica italiana (i grandi fatti di cronaca, le BR, la loggia massonica P2, le stragi di stato), fino a che cominciai ad apprezzare gli articoli di fondo in prima pagina e l’interessante “Terza pagina”, interamente dedicata alla cultura.


I compagni di classe mi prendevano in giro per quella passione, di fatto tendevo ad isolarmi da loro per leggere il quotidiano in ogni frazione di tempo libero, tra una lezione e l’altra e durante tutto l’intervallo.

Ben presto rimasi anche da solo al primo banco, davanti al professore, perché nessuno aveva il piacere di stare vicino a me, per tutti loro ero un ragazzo taciturno immerso nelle pagine di quel giornale, infatti al tempo non offrivo ai miei compagni di classe un dialogo gradevole.

Alla mattina quando arrivavo in classe avevo già letto i titoli di tutte le notizie ed avevo approfondito gli argomenti che mi parevano più interessanti, l’avevo fatto durante il tragitto sul filobus e camminando nel percorso di dieci minuti tra la fermata e la scuola.

Col trascorrere delle settimane mi ero abituato a leggere il giornale sia sui mezzi pubblici, senza risentire del disagio del mal di mare, sia mentre camminavo sul marciapiede.

Per strada, agli occhi della gente, dovevo apparire proprio come un ragazzo buffo, immerso nella lettura e che correva il rischio di andare a sbattere contro un lampione!

Devo tantissimo a quella testata giornalistica, mi fu d’aiuto per maturare, per studiare, per acquisire una cultura politica ed il senso civico, per formare la mia capacità di critica, per affrontare l’esame di maturità ed in seguito anche per trovare lavoro!

Ma ancor più riconoscente lo sono nei confronti di mio padre che in maniera intelligentissima non mi chiese mai di leggere il Corriere della Sera, perché sapeva che per la mia età poteva essere una lettura noiosa, inoltre conosceva il mio carattere che mal tollerava le imposizioni e per ultimo sapeva quanto amassi i fumetti…

Mio padre, ogni mattina, posò sul tavolo, proprio sul tovagliolo vicino al cucchiaino ed alla tazzina del caffè, quelle 300 lire. Apparentemente fu solo una semplice richiesta di comprargli il giornale, ma egli sapeva che quelle tre monete ogni giorno erano come tre semi piantati nel fertile terreno della mia giovane mente.

Conosceva quanto io fossi curioso ed era ben consapevole del fatto che io avrei colto l’occasione di appassionarmi a quella lettura, il suo modo di educare non fu quello di “impartire lezioni”, ma quello di darmi “l’opportunità di imparare”, il resto sarebbe dipeso solo da me.


Ero senza dubbio uno studente singolare, avevo una dialettica meravigliosa appresa da mia madre ed un carattere aperto e curioso, ma in classe non avevo legato con nessun compagno, non perché fossi asociale, ma perché avevo dato priorità alla gestione del tempo.

Non avevo pomeriggi disponibili per uscire con i compagni di classe. Per me la scuola doveva essere tempo da dedicare al puro apprendimento ed il Corriere della Sera si dimostrò il mio vero “compagno di classe”, perché con esso potevo portare avanti un dialogo quotidiano attraverso la lettura, seguendo l’evoluzione dei fatti.

Ben presto mi accorsi che la conoscenza dell’attualità mi aiutò ad approcciare alcune materie ed instaurare un dialogo “privilegiato” con i professori.

Il mio rendimento scolastico era buono, ma era merito dell’attenzione che prestavo durante le lezioni in classe, piuttosto che dello studio che riuscivo a dedicare a casa.


Appena compii quattordici anni ed ottenni la licenza media, mi recai in Comune per richiedere il libretto di lavoro, pur consapevole di continuare gli studi e seguii il consiglio di mio fratello e della mia famiglia di iscrivermi subito alle liste di disoccupazione.

Agii in quella maniera perché, in accordo alle leggi sul collocamento obbligatorio in vigore negli anni Ottanta, se fossi rimasto in graduatoria nelle liste di disoccupazione, per tutta la durata dei cinque anni delle scuole superiori, avrei raggiunto un punteggio tale da trovare un impiego “sicuro” appena acquisito il diploma, ancor prima di partire per il Servizio di Leva.

Per realizzare questo progetto però avevo l’onere di recarmi tutti i mesi all’ufficio di collocamento con il tesserino rosa della disoccupazione a fare apporre su di esso il timbro mensile che mi avrebbe consentito di scalare la graduatoria delle liste degli impieghi disponibili.

Quindi la gestione del tempo era importante anche per il fatto che una volta al mese dovevo rinunciare alle lezioni per recarmi all’ufficio di collocamento.

Per questo motivo nel corso del mese avevo la necessità di individuare il giorno di scuola che avrei potuto perdere, senza doverne pagare le conseguenze. Controllavo le assenze dei professori e appena ne vedevo l’opportunità, marinavo la scuola per recarmi all’ufficio di collocamento.

Non avevo detto a nessuno di quella mia necessità perché me ne vergognavo profondamente. I miei compagni pensavano semplicemente che una volta al mese marinavo la scuola giusto per diletto e a loro dava fastidio che quel ragazzo taciturno del primo banco, pur facendo così tante assenze, fosse il più bravo…


A quell’età è facile maturare invidie ed essere cattivi, i miei compagni non apprezzarono la mia indifferenza nei loro confronti, quindi spesso ero oggetto del loro scherno.

Mi riferirono che, a mesi dall’inizio della scuola, quando l’insegnante faceva l’appello ed io non c’ero, qualcuno dagli ultimi banchi al posto di dire “assente”, esclamava: “oggi è il giorno del Pezzali” e tutti si mettevano a ridere!


Mi ricordo come fosse ieri quando, dopo pochi mesi di scuola, consegnai alla professoressa la giustificazione per l’assenza del giorno prima (in cui mi ero recato all’ufficio di collocamento).

La professoressa Milena insegnava lettere, era una docente di vecchio stampo severa ma di animo buono, lei aveva notato le mie assenze mensili ed aveva mal digerito quella causale sulla giustificazione che esprimeva semplicemente la dicitura “Problemi familiari” che io non volevo meglio dettagliare.


Insomma Daniele, ogni mese mi porti una giustificazione con scritto “Problemi familiari” e non si capisce quali problemi tu abbia… Per cortesia consegnami il blocchetto che voglio controllare i mesi precedenti.


Quel mattino la professoressa Milena, prendendo in mano il blocco delle mie giustificazioni, notò un’altra cosa che la fece andare su tutte le furie e mi spedì dritto in Presidenza!


Sig. Preside, guardi il blocco delle giustificazioni di questo studente, tutti i permessi di uscita anticipata, di entrata successiva all’orario delle lezioni e le giustificazioni, sono tutte “firmate in bianco”!


Spiegai al preside che mio padre aveva firmato tutte le giustificazioni all’inizio dell’anno, ma prima di farlo mi parlò per alcuni giorni dell’importanza di essere responsabili delle proprie azioni, della sincerità, del senso del dovere e mi consegnò il blocchetto con la preghiera di gestire al meglio il mio tempo, utilizzando le giustificazioni con parsimonia per recarmi all’ufficio di collocamento o per gestire le entrate e le uscite nel caso che non ci fossero i professori, perché in tale maniera avrei aiutato loro nei lavori in portineria.

Il preside telefonò a mio padre, che gli confermò prontamente la versione che avevo appena riferito e quella mattina tornai in classe con l’anziana professoressa che non si capacitò di quel tipo di educazione e fu proprio lei che formulò quell’appellativo “il giorno del Pezzali” e fu sempre lei che in terza superiore mi promosse con il nove sia in italiano che in storia!


Ricordo bene la professoressa Milena: la trovai seduta in portineria a parlare con mia madre una mattina del luglio 1982, ero appena ritornato dagli uffici della banca che avevo pulito alla mattina all’alba, quell’estate ero stato assunto da un’impresa di pulizie proprio grazie alla graduatoria conquistata con tre anni di timbrature all’ufficio di collocamento.

La professoressa aveva saputo che mi ero iscritto alla scuola serale ed era venuta ad implorare mia madre per farmi cambiare idea, secondo lei sarebbe stato un errore farmi frequentare la scuola di sera perché sarebbe stata troppo pesante ed io avrei corso il rischio di abbandonare gli studi.

Parlammo tutto il pomeriggio: io e mia mamma le spiegammo che avevo assolutamente bisogno di lavorare.

Le raccontammo, con un po’ di reticenza, che mio fratello, che con la sua paga aveva dato per anni un contributo importante alla famiglia, si era sposato e aveva già avuto un bambino, quindi non poteva più fornire alcun aiuto ed ora il mio contributo era diventato indispensabile.

Io promisi alla professoressa Milena che, per quanto fosse stata dura la scuola serale, non avrei mai abbandonato gli studi e che, a tutti i costi, avrei conseguito il diploma.


Milena, quello stesso anno, raggiunse l’età per ritirarsi in quiescenza ed io andai a trovarla spesso a casa sua.

Nacque una bella amicizia, lei era vedova, non aveva avuto figli e suo marito era stato un noto giornalista scomparso precocemente. La mia passione per la lettura del Corriere della Sera fu il collante che segnò il nostro rapporto.

Fu proprio lei ad aiutarmi a preparare la tesina che volli presentare all’esame di maturità.

Io adoravo l’Opera di Luigi Pirandello! Avevo letto quasi tutte le sue tragedie, le novelle e vidi diverse rappresentazioni teatrali. La sua innovazione nel rappresentare i drammi mi affascinava, ero estasiato da quei dialoghi che animavano i suoi personaggi reali, palpabili e crudi.

Mi piaceva farmi travolgere nelle sue opere dalla realtà che rasentava la pazzia, la verità che mutava a seconda della prospettiva dalla quale il pubblico apprendeva i fatti…

“I Sei personaggi in cerca d’autore” che sbucano dalla platea, “Lamberto Laudisi” che sfida il pubblico nel “Così è se vi pare” e la risata intrisa di rabbia di “Ciampa” che chiude la tragedia de “Il berretto a sonagli” mi avevano folgorato.

Ma ancora di più quelle opere folgorarono il pubblico ed i critici contemporanei che videro in quell’innovazione, troppo in anticipo sui tempi, “l’offesa del Teatro”, perché non riuscirono a capire il messaggio avveniristico che Luigi Pirandello introdusse.


E proprio questo dettaglio accese la mia fantasia: sui libri di testo degli anni Ottanta Luigi Pirandello era descritto come il premio Nobel della letteratura che segnò l’inizio del teatro moderno, con tutte le lodi (post mortem) ad egli dovute.

Ma come sarebbe stato assistere, ai primi del Novecento, a quelle prime teatrali, ingiustamente fischiate dal pubblico e condannate dalla stampa?


Era il 1984 ed internet ancora non esisteva… ma attraverso gli archivi del Corriere della Sera e della Biblioteca Sormani di Milano recuperai diversi articoli dei quotidiani dell’epoca che criticavano, ingiustamente, le prime rappresentazioni che Pirandello diede nei maggiori teatri del Paese.

Tragedie come “I sei personaggi in cerca d’autore” e “Così è se vi pare” vennero definite “delle opere squinternate, non degne di un pubblico pagante”.

Fu un lavoro di numerosi giorni, passati a vagliare per ore e ore microfilm di interi giornali ma alla fine trovai tanti articoli, nei quali Pirandello venne apostrofato in maniera indegna.

Feci fotocopiare quelle rare testimonianze e con la professoressa Milena descrissi la peculiarità della mia ricerca ma non mi limitai a descriverne il metodo ed il valore storico.

Volli andare oltre, facendo un’analisi del presente, citando in causa i media, allo scopo di portare la mia riflessione davanti alla commissione d’esame e ragionare su come le prospettive ed il trascorrere del tempo possono mutare la visione dei fatti, proprio come se tutti noi costantemente vivessimo in una novella pirandelliana.

Quella tesina venne apprezzata moltissimo dalla commissione d’esame al punto che la professoressa con la quale la discussi mi diede il suo indirizzo di casa e mi chiese la cortesia, dopo l’esame, di spedirle una copia!


L’amore per la scrittura cominciò proprio durante gli anni della scuola superiore e senza dubbio fu indotto dalla passione per la lettura, interpretai la scrittura sia come un mezzo di comunicazione, sia come un metodo per ponderare.

Amavo descrivere le emozioni e per farlo avevo imparato a cogliere e narrare gli stati d’animo al momento perché le parole vanno forgiate all’istante senza aspettare che lo stato emotivo si raffreddi.

Avevo sempre con me il diario e la penna, se fossi andato a scuola sarebbero stati nello zaino con i libri, altrimenti li riponevo nella borsa di cuoio con la quale andavo sempre in giro.

Al tempo non c’erano i cellulari ed i social network, quindi, quando mi muovevo per Milano, per ingannare le attese alle fermate e sui mezzi pubblici, era normale per me avere un libro da leggere e la borsa era indispensabile per riporre sia il libro che il mio diario!

Gli appunti di quelle emozioni, colte a caldo, spesso divennero lettere.

Quale emozione è più forte per un ragazzo di diciannove anni se non quella provata poco prima dell’esame di maturità?

Racconto tratto dal libro "Lettere di gioventù" di Daniele Pezzali edito da KDP-Amazon 2020 - (https://www.danielepezzali.com/libri).

8 gennaio 2021

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